Bella Impresa Friulana
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IL PIACERE DELL'ORTO

1/31/2016

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Ogni famiglia residente in campagna o alla periferia di paesi e città, coltivava in passato un proprio orto per il fabbisogno familiare. Avere un bell’orto ricco e rigoglioso era motivo di vanto e spesso di confronto fra vicini di casa o compaesani.
Daniela Gattel, titolare con la figlia ed il marito dell’azienda agricola Le Quattro Stagioni – San Quirino (PN) che fa parte della rete Bella Impresa Friulana, ha portato su maggior dimensione la coltivazione dell’orto di famiglia, trasformandola in una vera e propria attività economica.
 
Daniela, quali sono i tuoi ricordi sull’orto?
Fin da bambina ho respirato i suoi profumi e vissuto le sue trasformazioni dettate dalle stagioni, aiutando la mamma nella sua cura. Un tempo l’orto era recintato perché gli animali da cortile razzolavano ovunque ed al suo interno c’erano file di piante ornamentali dai colori sgargianti, come dalie e zinnie, i cui fiori venivano utilizzati in cimitero per abbellire le tombe dei propri defunti. Per quanto riguarda la coltivazione si utilizzavano sementi riprodotte in casa di anno in anno. I rischi maggiori erano dati dalle grandinate che potevano distruggere completamente il raccolto e dalla siccità che “bruciava” le piante. Non disponendo di sistemi irrigui, l’acqua per bagnare veniva prelevata con secchi dalla canalette che attraversavano il paese.
 
Cosa c’è di diverso ai nostri giorni che pratichi nella tua azienda?
Oggi, anziché sementi, si usano piantine prodotte in vivaio e ciò consente di anticipare le coltivazioni dopo il periodo di riposo invernale. La rete irrigua che attraversa la nostra zona ci permette di bagnare a seconda delle specie con impianti a pioggia, a goccia o per scorrimento. Grazie alla pacciamatura con teli di materiale organico biodegradabile possiamo poi proteggere le piante dalle erbe infestanti e garantire loro un giusto livello di temperatura ed umidità.
 
Ci descrivi brevemente le lavorazioni che fate, mese per mese, nel tuo orto?
A gennaio la terra riposa. In febbraio, dopo il disgelo, prepariamo il terreno con una prima concimazione a base di letame, l’aratura, un’ulteriore concimazione in superficie con pellettato biologico, la fresatura e l’interramento meccanico dei sassi per far sì che le radici delle piantine non trovino poi ostacoli nella loro crescita. Di seguito a marzo posiamo nel terreno il telo pacciamante e la manichetta forata per l’irrigazione, mettiamo a dimora le piantine di fragola e concimiamo e ricolmiamo di terra quelle di asparago. Tra aprile e maggio piantiamo cipolla, porro, scalogno, spinacio, bieta, pomodoro, zucchina, carciofo, peperone, melanzana, zucca, sedano, cetriolo, basilico ed iniziamo la semina dei fagioli che viene intervallata e ripetuta più volte con varietà a diverso periodo di maturazione. Ai primi di maggio comincia la raccolta degli asparagi ed a fine mese di piselli, zucchine, lattughe, bieta da taglio, rapanelli e spinaci. Tra giugno ed agosto l’orto offre il massimo della varietà di produzione e le piante, di diversa forma e portamento, si ricoprono di fiori e frutti di tutti i colori. A settembre sono pronti cavolfiori, broccoli, finocchi, patate, cicorie, radicchio, ecc., piantati o seminati in estate e la cui raccolta per alcune specie si prolunga fino alla terza settimana di dicembre. In pratica nell’orto si susseguono per tutto l’anno semine e raccolti di ortaggi diversi a seconda delle stagioni.
 
Tenete conto anche delle fasi della luna per la scelta del momento in cui fare determinate operazioni?
Si, le semine di lattuga e radicchio si fanno in luna calante onde evitare che le piante vadano subito in fioritura. Naturalmente nella messa a dimora di piantine acquistate in vivaio il problema non si pone. Sarà cura del vivaista rispettare le fasi lunari nella semina.
 
Usate anche sementi di vostra produzione?
Nella nostra azienda riproduciamo ancora le sementi di alcune varietà di pomodoro cuor di bue, zucca, patate, zucchina e lattuga che si distinguono per resistenza al freddo o caratteristiche organolettiche da quelle presenti sul mercato.

Ci sveli qualche segreto o ci dai qualche consiglio per la cura dell’orto?
Per ottenere un buon risultato non si devono mai tagliare le punte alle piante di pomodoro e non si devono bagnare le foglie delle piante di qualsiasi specie di giorno quando fa caldo. Per tener lontani gli afidi è buona pratica piantare una fila di tagete vicino a fagioli, fagiolini e pomodori e per favorire l’impollinazione si possono richiamare le api con qualche pianta di lavanda. Onde evitare pruriti ed irritazioni o colorazioni anomale alla pelle è opportuno coprire gambe e braccia durante la raccolta di zucchine, cetrioli, melanzane e pomodori.

C’è qualche ospite indesiderato che apprezza le tue coltivazioni?
Sono molto pericolose le limacce che, in presenza di forte umidità, fuoriescono dalle siepi e divorano tutte le parti verdi. Per evitare che si riversino nell’orto, ne tracciamo il perimetro con il sale. Alla gazza ladra piacciono particolarmente i germogli di pisello che dobbiamo pertanto proteggere con un telo di tessuto non tessuto. Caprioli e cervi gradiscono i germogli più dolci come, ad esempio quelli di finocchio, mentre i cinghiali amano i tuberi e per cercarli scavano nel terreno provocando gravi danni alle colture. Ci sono poi le arvicole, graziosissimi topolini che fanno la loro tana sotto la pianta e ne mangiano le radici.

​In conclusione cosa rappresenta per te l’orto?
Nel mio orto trovo equilibrio e serenità e quindi anche la giusta dimensione per riflettere e sviluppare nuove idee. Sento una forte vicinanza con le piante a cui sono riconoscente per la forza che mi danno e per la loro generosità. In un certo senso vivo nell’anima la loro continua trasformazione. Amo particolarmente stare nell’orto al mattino presto, momento della giornata in cui i profumi sono più intensi, o quando la pioggia fa rinascere le piante dopo un periodo di arsura.
Sono emozioni uniche che invito tutti a provare anche venendo a trovarmi in azienda.
                                                                                                                                    Giuliana Masutti
 
www.aziendalequattrostagioni.com

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Un purcit per tutto l'anno

1/22/2016

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​Il purcit è in friulano il maiale, l’animale che più di ogni altro in passato ha fatto aguzzare l’ingegno e sbizzarrire la fantasia delle popolazioni locali per garantirsi cibo per tutto l’anno.
Argiel, bondiola, cicines, coppa di testa, crafus, filon, linguâl, marcundela, musèt, pestàt, polmonarie, sanganel, ecc. ecc., sono solo alcuni dei tanti prodotti tradizionali di questa regione, ricavati dal maiale e riportati nell’Elenco Ministeriale dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT), che si affiancano ad altri maggiormente conosciuti come ad esempio salame, soppressa, pancetta ed ossocollo.
Riprendiamo l’argomento della “cultura del maiale”, già introdotto in un precedente articolo, con Roberto Ferraro che sta mantenendo e valorizzando tale patrimonio di conoscenze. nella sua azienda agricola, denominata Borgo Titol, che fa parte della rete Bella Impresa Friulana ed è situata a Tramonti di Sopra nella montagna pordenonese.
Roberto alleva dieci, dodici maiali all’anno, nati in azienda e derivati dall’incrocio di più razze, tra cui le pregiate Cinta Senese e Sarda, ed in inverno trasforma le loro carni in salumi tipici che propone poi agli ospiti del suo agriturismo.

Innanzi tutto all’arte norcina di quale territorio fai riferimento per le tue produzioni?
I miei prodotti rispecchiano le tradizioni dell’area pedemontana della provincia di Pordenone, ma in alcuni casi ho introdotto pratiche od accorgimenti di altre regioni dell’arco alpino.

​Qualcuno dice che si sono persi i sapori di una volta perché è cambiata la qualità delle carni….
Condivido questa affermazione. Una volta il ciclo del maiale, dalla nascita alla sua macellazione e trasformazione, era legato alle stagioni ed anche la sua dieta alimentare era basata sulle disponibilità del momento. L’allevamento di questo animale è nato proprio dalla sua grande capacità di trasformare in carne gli scarti delle colture (verdura e frutta) ed il siero residuo della caseificazione.
Negli allevamenti specializzati dei nostri giorni gli animali sono alimentati con mangimi e vengono portati in tempi molto brevi al peso di macellazione. Di conseguenza le carni sono più acquose e meno saporite e per dar sapidità ai prodotti i salumifici sono spesso costretti ad impiegare maggiori quantità di sale.

Tu hai aderito al progetto Piccole Produzioni Locali (PPL) del Friuli Venezia Giulia.
Ci puoi dire di cosa si tratta?
E’ un progetto che mira a salvaguardare le produzioni di nicchia, come quelle della nostra azienda, garantendone però nel contempo la sicurezza alimentare. Per farne parte è indispensabile che l’origine della materia prima sia locale, che le quantità prodotte siano limitate e che la vendita sia effettuata su un’area ristretta e vicina alla sede aziendale.

In sintesi una produzione basata sulla qualità anziché sulla quantità. Ci racconti brevemente il processo di trasformazione dei tuoi maiali ed i segreti per ottenere dei buoni salumi?
Dopo la macellazione lasciamo riposare ed asciugare le carni per circa trentasei ore. Poi separiamo i tagli in base alla loro destinazione. Per salami e soppressa utilizziamo le carni più pregiate, fra cui quelle della coscia che nell’industria sono invece destinate alla produzione del prosciutto. Le carni “nervose”, come stinco e guancette, e la cotica diventano musetto (in friulano musèt). Con la carne della pancia ed i rifili di costa facciamo le salsicce, che poi affumichiamo leggermente nella nostra “casetta del fumo” con legno di nocciolo e rametti di ginepro. Con fegato, cuore ed altri parti sanguigne prepariamo le salsicce chiamate figadei. Il grasso viene invece macinato e fatto sciogliere nella caldiera (una grande pentola), fino a che rimangono i ciccioli (in friulano cicines, fricis, frisse). Il tutto viene poi messo in vaso ed all’occorrenza riscaldato ed usato per condire il radicchio di campo.
I pezzi interi destinati alle produzioni “importanti” come pancetta, ossocollo e speck rimangono in concia con sale ed aromi, vengono periodicamente massaggiati e dopo circa dieci giorni assemblati ed insaccati.
A pochi giorni dalla macellazione, proponiamo poi nel nostro agriturismo le ossa bollite accompagnate con cren e salsa verde.

Cosa aggiungi ai salumi per dar loro sapore e garantirne la conservazione?
Noi usiamo solo sale, pepe e vino rosso, in cui è stato fatto macerare dell’aglio, per insaporire salame e soppressa; macis, cannella e pimento per musetto e salsiccia di fegato, erbe aromatiche per lo speck.
I nostri salumi non contengono conservanti ed antiossidanti e per questo tendono a diventare scuri dopo il taglio. Non usiamo culture starter per avviare i processi di fermentazione e maturazione, ma facciamo affidamento solo sulla nostra capacità di controllare e gestire temperatura ed umidità, prima in un’apposita cella e poi in cantina.

​L’industria ha ridotto i rischi di deterioramento e standardizzato le produzioni con l’aggiunta di conservanti ed additivi. Un consumatore che vuole l’eccellenza e che per questo si rivolge al contadino, a cosa deve prestare attenzione nel momento dell’acquisto di un salame?
Il salame deve essere ricoperto all’esterno da una leggera ed uniforme muffa grigiastra tendente al verde. In presenza di macchie rosse o nere molto probabilmente il prodotto non ha subito una corretta maturazione ed è alterato. E poi naturalmente rimane la “prova palato”….che invitiamo tutti a fare nel nostro agriturismo a Tramonti di Sopra.
                                                                                                        
Giuliana Masutti
​www.borgotitol.it
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Fin che morte non vi separi.....

1/14/2016

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Il matrimonio: cosa è cambiato nell’organizzare e nel vivere il giorno che rappresenta uno dei passaggi  più importanti di vita per la maggior parte delle persone?
Ne parliamo con Walter Rossi, titolare di Le Troi Chef Catering di Pordenone, che attraverso il suo lavoro si confronta quotidianamente con coppie decise a fare il “grande passo”.

Walter, quali erano i percorsi di un tempo e come si arriva invece oggi al matrimonio?
In passato il matrimonio era pensato, programmato e preparato in tempi molto lunghi; normalmente aveva luogo a distanza di due-tre anni dalla consegna dell’anello di fidanzamento. I promessi sposi dovevano infatti accantonare le risorse necessarie per poter “ metter su casa e famiglia” ed il matrimonio costituiva per loro un vero e proprio cambiamento di vita.
Oggi buona parte delle coppie che si avvicina al matrimonio già convive.
La decisione di sposarsi nasce quindi dal desiderio di consolidare e valorizzare una situazione di fatto già esistente.

Quali sono gli aspetti positivi e negativi di questo cambiamento?
Non avendo l’occasione di conoscersi veramente a fondo, perché la frequentazione dei futuri sposi era limitata e talvolta anche controllata da familiari, una volta era più facile sognare ed idealizzare il matrimonio.
Come diceva lo scrittore Niccolò Tommaseo (1802-1874) il matrimonio  era come la morte, pochi ci arrivavano preparati. Oggi la convivenza consente all’uno di scoprire non solo i pregi, ma anche quelli che possono essere percepiti come difetti  dell’altro. Il matrimonio ha quindi perso un po’ del suo fascino, ma le persone che lo intraprendono sono più pronte e consapevoli di ciò che comporta la loro scelta.
E’ però consuetudine della sposa ritornare a dormire nella casa dei genitori la notte prima delle nozze e questo fa comunque vivere alla sposa ed alla sua famiglia l’emozione del passaggio ad una nuova vita.

A chi si rivolgevano e rivolgono oggi gli sposi per trovare supporto ed informazioni per l’organizzazione del loro matrimonio?
In passato i familiari erano parte attiva e determinante. Ad esempio i genitori, solitamente della sposa, pagavano il pranzo di nozze e la nonna apriva la musigna, cioè il salvadanaio, per la dote della nipote. Il matrimonio era dal punto di vista sociale un evento importante e la famiglia voleva fare bella figura di fronte a parenti e compaesani. Per questo condizionava le scelte anche in merito agli inviti che talvolta estendeva per proprio conto a persone al di fuori di quelle individuate dagli sposi. Un matrimonio con tanti invitati aveva poi lo scopo di ostentare una buona disponibilità economica.
Oggi, con l’avvento di internet, gli sposi raccolgono informazioni su siti e blog specializzati ed hanno le idee ben chiare su cosa desiderano e vogliono fare.
La famiglia è quindi pressoché ininfluente e spesso la coppia decide di separare il momento di festa con i parenti da quello con gli amici.

Intrattenimento musicale e foto ricordo di ieri e di oggi?
In passato c’erano i musicisti, oggi c’è il dj. Le foto ricordo erano rigide, composte, costruite. Oggi si cerca la naturalezza, il fotografo deve cogliere attimi e particolari che danno luce e vita alla festa.
Ed il pranzo di nozze com’è cambiato?
Una volta ci si sedeva all’ora di pranzo al ristorante e ci si alzava dopo cena. Il valore del matrimonio era dato anche dalla durata del pranzo e dal numero delle portate.
In tempi in cui non c’era abbondanza di cibo, l’evento era atteso come un’occasione per rimpinzarsi e per mangiare pietanze che normalmente a casa non ci si poteva permettere. Spesso il menù era studiato proprio con l’obiettivo di riempire il più possibile i piatti e, di conseguenza, le pance. La gente stava a tavola ore ed ore a mangiare, chiacchierare e fumare. Nei miei ricordi ci sono proprio grandi nuvole di fumo che riempivano le stanze ed avvolgevano le persone.

Oggi è tutto più dinamico e nella stesura del menù oltre a qualità ed originalità dei piatti si deve tener conto da subito di eventuali intolleranze e del cambiamento delle abitudini alimentari come, ad esempio, il passaggio da parte di molte persone ad una dieta vegetariana o vegana.
In molti casi non sono però cambiate le aspettative di genitori e nonni che ancora identificano nell’abbondanza di cibo la condizione indispensabile per fare bella figura con gli ospiti.  La frase più ricorrente è: Fiòi  me racomando, che dopo non demo a magnàr na piza!  (Figlioli, mi raccomando che dopo non si vada a mangiare una pizza!).
A conclusione di un matrimonio voluto dagli sposi in forma picnic, una nonna mi si è avvicinata e mi ha chiesto: Siór, ma ades quand elo che se magna? (Signore, ma adesso quand’è che si mangia?)
Da un lato ci sono quindi i giovani con nuove richieste dettate da un mondo che corre e che fa  modificare velocemente le abitudini. Dall’altro c’è invece la vecchia generazione ancorata alla tradizione ed ai valori del passato e che in molti casi non riesce ad accettare ed a comprendere il cambiamento. Ricordo il disappunto di una anziana ristoratrice, quando al servizio di una spuma di pesce in formato finger food si rivolse alla nipote dicendole “Vàrda nina, i ne dà al gelato ancora prima de magnàr! (Guarda bambina, ci danno il gelato ancora prima di mangiare!)
Dalla cucina tradizionale, alla nouvelle cousine, alla riscoperta dei prodotti del territorio: il menù di nozze ha rispecchiato nel tempo le tendenze del momento.
​Che ruolo possono avere ai nostri giorni le specialità di Bella Impresa Friulana in un pranzo nuziale?

Oggi è molto facile trovare fra gli invitati persone di altri paesi e culture e di solito gli sposi sono orgogliosi di far loro provare e gustare i sapori locali perché il cibo è ancora un elemento forte di identificazione e caratterizzazione di un determinato territorio. I prodotti della rete possono quindi essere strategici per incuriosire e stupire al palato soprattutto gli ospiti che non hanno ancora avuto modo di conoscerli.
In parole povere, possono veramente fare la differenza!
                                                                                                Giuliana Masutti

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Il maiale del contadino friulano

12/20/2015

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La stagione invernale sta portando molti cambiamenti sulle nostre tavole e nella cucina tradizionale del Friuli Venezia Giulia in questo periodo dell’anno acquisisce grande spazio ed importanza il maiale.
La “cultura del maiale” e dei prodotti ricavati e conservati con processi antichi di salatura (di origine romana) o di affumicatura (di origine celtico-germanica) è infatti diffusa su tutto il territorio regionale.
Al tempo in cui non esisteva ancora il frigorifero, ogni famiglia allevava un suino per garantirsi una scorta alimentare per tutto l’anno e tale consuetudine è tutt’oggi mantenuta in molte aziende agricole della regione.  
Il maialino, acquistato a fine primavera, veniva nutrito con siero di latte (un sottoprodotto di lavorazione allora largamente disponibile per la presenza in ogni paese di un caseificio), farinaccio, frutta e verdura di scarto e con eventuali avanzi dell’alimentazione umana.
Di fondo c’era quindi il concetto di sfruttare la capacità del suino di trasformare in carne gli scarti, evitando così qualsiasi spreco ed ottimizzando tutte le risorse.
Ai nostri giorni la sua dieta è normalmente più ricca in quanto spesso integrata con altri prodotti vegetali ed appositi mangimi.
Secondo consuetudine, il maiale adulto viene macellato a partire da novembre a febbraio dell’anno successivo e la sua trasformazione è curata dal norcino che ha imparato l’arte da l'anziano di mestiere e che oggi perfeziona le sue conoscenze anche attraverso specifici corsi organizzati dalle autorità sanitarie locali.
Quali sono gli elementi che caratterizzano un buon norcino?
Senza dubbio la capacità di dosare ed assemblare parti ed ingredienti, ma anche di evitare qualsiasi condizione che possa causare una cattiva conservazione dei prodotti. La perdita della “scorta alimentare” in passato poteva infatti ripercuotersi gravemente sulla tenuta e sopravvivenza della famiglia.
In passato il norcino doveva poi avere dei buoni denti perché su questi faceva leva nel tener fermo o tirare lo spago durante la legatura di soppresse, pancette, ossocolli e, non ultima, doveva possedere una buona capacità di gestione e controllo delle risorse umane.
L’uccisione del maiale era infatti vissuta nelle famiglie come un momento di festa e spesso i collaboratori occasionali, costituiti da parenti ed amici, presi dall’euforia dell’evento, alzavano un po’ troppo il gomito, a scapito della qualità del lavoro e talvolta anche dei rapporti interpersonali.
Il 17 gennaio i maiali potevano invece dormire sonni tranquilli perché ricorre San Antonio Abate, patrono dei norcini che in quel giorno rigorosamente non effettuano macellazioni. Chi l’ha fatto racconta storie di maiali scappati attraverso la campagna o che “saltavano” sul piano di lavoro anche dopo essere stati sezionati.

Del maiale si utilizza tutto: non solo carni, ma anche frattaglie e grassi.
Le massaie misuravano con le dita l’altezza del lardo, ricavato dal dorso del maiale ed usato nella preparazione dei salumi e come condimento. Uno spessore di quattro dita garantiva abbondante condimento per tutto l’anno, mentre quello di due sole dita stava ad indicare un anno “magro”.
Il lardo è tra l’altro un ingrediente base di alcune tra le pietanze invernali più tradizionali della cucina friulana, come la zuppa di fagioli, il radicchio di campo con le frisse, la brovada, ecc..
In alcune zone alle carni suine venivano aggiunte in piccola quantità anche carni bovine di animali il cui mantenimento non era più conveniente o sostenibile. Nelle mezzadrie più grandi talvolta il proprietario terriero regalava ai suoi mezzadri la mucca anziana, chiamata carbona per allungare i salami.
La scelta di destinare le carni più ad un tipo di salume rispetto ad un altro, poteva variare da famiglia a famiglia ed era spesso funzionale non solo alla loro durata o conservabilità, ma anche alla necessità di sfamare più bocche in occasione di lavori di campagna come la semina, la zappatura, la raccolta, ecc.. Tra i salumi di maggior pezzatura, la pancetta si conserva più a lungo e così  veniva spesso consumata proprio in occasione della macellazione del nuovo maiale.

Le ricette particolari
Dall’esigenza di non sprecare alcuna risorsa, sono poi nate preparazioni molto particolari come la boldòna o las mùlas, una specie di budino preparato con il sangue fresco del maiale e l’aggiunta di latte, zucchero, uva passa, buccia di limone ed altri aromi ed anche di cacao nella mùlas.
A Natale pure la vescica del maiale trovava un’importante destinazione attraverso la preparazione del capòn in canevèra.
“Ancora tiepida, la vescica veniva lavata molto bene e gonfiata con una canna di bambù per farla aumentare di dieci volte rispetto al suo volume iniziale. Poi si levava la canna, facendo attenzione a non far uscire l’aria dalla vescica, la si chiudeva con uno spago e si appendeva in cantina ad essiccare. Una volta secca la vescica manteneva la sua forma a palla e questo sacchetto poteva servire per conservare al suo interno dei cibi o per cuocere il cappone.
Grazie alla canèvera la carne restava più saporita perché veniva cotta senza sugo, senza mai toccar acqua” da Cucina Pordenonese – Le ricette di siora Catina Edizioni Biblioteca delle Immagini”
 
E dopo questo “assaggio”, prossimamente  approfondiremo la conoscenza dei salumi di suino delle diverse zone del Friuli Venezia Giulia che possono veramente rendere speciale ed unica la nostra tavola.

Alla prossima!

                                                                                                Giuliana Masutti


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NUTRIMENTO PER IL CORPO E PER LO SPIRITO!

11/29/2015

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Dal 5 al 13 dicembre la rete Bella Impresa Friulana è presente a L’Artigiano in Fiera a Milano, al padiglione 3, nello stand Ersa – Agenzia Regionale per lo Sviluppo Rurale della Regione Friuli Venezia Giulia.
Grazie alla collaborazione dell’ Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi l’iniziativa è pubblicizzata anche attraverso sito internet e newsletter della Fondazione.
Ma quali sono gli aspetti che possono accumunare la buona musica con il buon cibo?
Con grande leggerezza e senza mancare di rispetto al “sacro”, mescolandolo con il profano, proviamo ad analizzarli ad uno ad uno.
 
1 - Cos’è la musica? E nel caso specifico, cos’è la musica classica?
Da dizionario  la musica è l’arte di combinare insieme i suoni, secondo determinate leggi e convenzioni, servendosi di strumenti musicali o della voce umana per l’esecuzione. La musica classica è una musica “colta”, nata nel contesto della cultura occidentale, che usa sapientemente tecniche musicali secondo un’organizzazione formale altamente sviluppata. Da molti è considerata un vero e proprio nutrimento per lo spirito.
Cos’è il cibo? Ed in particolare cosa rappresentano i cibi della tradizione?
Il cibo è tutto ciò che si mangia, che ci nutre. Spesso deriva dalla combinazione sapiente, assimilabile ad un’arte, di più elementi che vengono valorizzati servendosi di tecniche di trasformazione come la maturazione, la cottura, la miscelazione, e così via. Il cibo della tradizione è poi un patrimonio culturale dei popoli che si tramanda di generazione in generazione nel rispetto delle ricette originali.
 
2 – Quanto è importante l’operato dell'uomo nella musica e nel cibo?
Nella musica classica la differenza è data dalla qualità della composizione e dell’esecuzione e quindi dalle capacità artistiche del compositore e dell’orchestra.
Senza escludere i fattori naturali come clima e territorio, che possono incidere notevolmente a priori sul risultato finale, anche nella preparazione del cibo la professionalità, la conoscenza e la fantasia d’interpretazione del produttore agricolo, dell’artigiano e del cuoco sono indispensabili per produrre una buona “sinfonia”.
 
3 – Come apprezzare al meglio la buona musica ed il buon cibo?
La mente deve lasciarsi trasportare in un viaggio in un altro mondo, in un’altra dimensione di ascolto rispetto a quella frenetica di tutti i giorni. Se un’esecuzione orchestrale necessita di spazi e di un’acustica ad alto livello, anche un cibo artigianale di buona qualità, o una sua elaborazione culinaria, ha bisogno di un contesto che metta l’individuo nella condizione di coglierne le tante sfumature di sapore e di aroma che lo rendono unico e talvolta irripetibile. 
 
In conclusione possiamo trovare tante parole che accomunano musica e cibo, come ad esempio combinazione, arte, nutrimento, piacere, viaggio, cultura, ma ognuno di noi può provare a scoprirne molte altre.
 
Buona ricerca!
                                                                                            Giuliana Masutti

 
www.laverdi.org    
www.artigianoinfiera.it
www.ersa.fvg.it


 
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Un vestito nuovo per la cucina friulana

11/23/2015

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 Negli ultimi anni si è assistito ad una riscoperta della cucina territoriale, che ha portato i grandi chef ad una rivisitazione dei piatti della tradizione.

Di questa evoluzione e dell’arte culinaria in generale parliamo con Cristian Fraresso, chef di Le Troi Chef Catering di Pordenone, un’azienda che con la rete Bella Impresa Friulana sta promuovendo e valorizzando proprio i prodotti del territorio.

In cosa si diversifica la cucina moderna da quella del passato?

Oggi la cucina non deve più soddisfare il bisogno primario di alimentarsi, ma deve rispondere alle esigenze di una grande varietà di palati e di un cliente con maggiori conoscenze ed aspettative in termini di qualità, varietà e presentazione del piatto.

Quanta importanza riveste la qualità della materia prima utilizzata?
Tantissima, anzi direi che è fondamentale per fare la differenza. Un prodotto di buona qualità, ottenuto con cura, impegno e controllo di tutta la filiera si valorizza da solo e permette un minor uso di grassi, spezie e sale perché ha già un sapore intrinseco intenso ed equilibrato.

Qual è il segreto per la creazione di un buon piatto?
I sapori devono essere in equilibrio e permettere nello stesso tempo l’identificazione dei singoli ingredienti che hanno contribuito alla creazione del nuovo gusto.

Come pensi si possa coniugare la cucina tradizionale con quella moderna?
I piatti della tradizione devono mantenere la loro identità, ma possono essere valorizzati attraverso l’accostamento di nuovi elementi che, per quanto mi riguarda, seleziono mentalmente a priori. La ricetta pensata deve essere poi sperimentata e messa a punto per trovare le giuste dosi e tecniche di cottura.

A proposito di tecniche di cottura, quali sono le novità della cucina moderna?
Oggi si presta maggior attenzione anche agli aspetti salutistici e alla “leggerezza” dei piatti. Ad esempio la cottura dei cibi sottovuoto a bassa temperatura consente l’eliminazione dell’uso di olio o burro e fa risaltare il gusto del prodotto. Bisogna però precisare che le nuove attrezzature presenti sul mercato sono un valido aiuto, ma a priori il cuoco deve saper fare la spesa e saper usare i propri sensi per scegliere, selezionare e comporre sapientemente sapori ed aromi.

Cosa ci dici invece in merito alla presentazione del piatto?
La preparazione deve essere stimolante, golosa alla vista, con una giusta gradazione di colori in un insieme di bellezza che definirei “un caos ordinato”. Non servono tante decorazioni, la pietanza stessa può essere una decorazione.

Per te il cuoco deve usar bene i sensi, ed il cuore?
La passione è senz’altro fondamentale in questo lavoro. Io sono felice quando sto ai fornelli e credo che morirò con la padella in mano. Ero convinto di fare questo mestiere già dalla età di 6 – 7 anni.

Quali sono le caratteristiche personali che ti hanno aiutato?
Sono una persona curiosa, pignola e perfezionista. Ho poi avuto la fortuna di crescere in una famiglia in cui si dava una grande importanza alla qualità del cibo ed ho vissuto l’infanzia in campagna, a contatto con la natura ed i suoi profumi. Per questo ho una buona “banca” di sapori ed aromi da cui attingere.

Qual è il commento che più ti gratifica?
“E’ come me l’aspettavo” perché vuol dire che la mia proposta ha completamente soddisfatto il cliente.

Ecco due “classici” della cucina friulana, muset e brovada e frico, rivisitati da Cristian e preparati con i prodotti di Bella Impresa Friulana.

       Scomposto di muset e brovada con finto zabaione di patate e kren
Ingredienti per 6 persone: 2 cotechini, 300 g di brovada stufata con lardo o cipolla, 2 tuorli d’uovo, 60 g di kren fresco grattugiato, olio extravergine di oliva, prezzemolo, sale.

​Per lo zabaione: lessare le patate a pezzi in acqua salata. Una volta cotte scolarle tenendo da parte 2 decilitri di acqua di cottura per emulsionare il purè. Frullare con il mini pimer e tenere in caldo.

Per l’olio al kren: nel mixer passare il kren, il prezzemolo e l’olio. Filtrare con un colino ed unire al purè. Aggiungere anche i tuorli (con le patate calde) e sbattere il tutto con una frusta.

Cuocere il cotechino per un’ora e mezza.

Impiattamento: distribuire sul fondo del piatto un mestolino di zabaione sopra il musetto tagliato obliquamente a fette ed intervallato dalla brovada. Decorare a piacere con del fieno di sedano rapa.
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 Frico spadellato con insalata di radicchio bianco, mele e speck
Ingredienti per 6 persone: 6 frico Cucina di Carnia, 1 cespo di radicchio bianco (tipo pan di zucchero), 2 mele Fuji, 300 g di speck, olio extravergine di oliva, sale, pepe rosa, pinoli.

Per l’insalata: lavare il radicchio e tagliarlo a julienne, unire lo speck a striscioline precedentemente spadellato e le mele a pezzetti. Aggiungere quindi il pepe rosa, i pinoli e condire il tutto.
Per il frico: spadellare il frico per 7/8 minuti fino ad ottenere una crosticina croccante da ambo i lati.

Impiattamento: disporre il frico sul piatto e coprirlo con abbondante insalata. Finire con un giro di olio extravergine di oliva a crudo.
                                                                                                Giuliana Masutti
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Il potere del consumatore

10/6/2015

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La spesa alimentare non serve solo a soddisfare i nostri bisogni, ma può indirettamente condizionare anche la vita socio economica del territorio e la nostra salute e quella dell’ambiente.

Il consumatore moderno ne è pienamente consapevole e per questo vuole sempre più conoscere provenienza, storia e tecniche di produzione dei cibi.

Ma come si sono modificate nel tempo le nostre modalità di acquisto?

Prima dell’avvento della grande distribuzione, il consumatore si rivolgeva al produttore agricolo od artigiano locale o al negoziante di paese.
L’acquisto era quindi legato al luogo, era basato su un rapporto di fiducia con il venditore ed era condizionato dalle stagioni.
Oggi nel supermercato troviamo tutto, in ogni stagione e ci serviamo da soli.
Di conseguenza il nostro acquisto dipende da due soli fattori: prodotto e prezzo.
In termini generali, secondo i dati statistici dell’Osservatorio del Commercio del Ministero dello Sviluppo Economico, il Friuli Venezia Giulia è con Veneto, Lombardia ed Alto Adige tra le regioni con minor numero (pari a 10,4) di esercizi commerciali ogni 1.000 abitanti ed i suoi punti vendita hanno la maggior dimensione media in Italia (173 mq).

Ne risulta che nell’alimentare l’80 % del valore delle vendite è attribuibile alla Grande Distribuzione.

Con quali conseguenze alla produzione?

Per la sua dimensione ed organizzazione, la Grande Distribuzione chiede ai suoi fornitori (grossisti o produttori), costanza di fornitura, in termini quantitativi, qualitativi e di servizio, quantità consistenti di prodotto, prezzi di vendita contenuti, a cui si possono aggiungere certificazioni, offerte per vendite promozionali, supporti finanziari per iniziative pubblicitarie e così via.

I piccoli produttori non sono in grado singolarmente di soddisfare tali esigenze e pertanto devono necessariamente rivolgersi a rivenditori all’ingrosso, che a loro volta in regione si sono ridotti a pochi soggetti. La concentrazione della vendita all’ingrosso nelle mani di pochi ha reso contrattualmente più deboli i produttori che, per sostenere i costi di produzione ed esaudire le richieste di grossisti, e quindi indirettamente della Grande Distribuzione, spesso sono stati costretti ad introdurre tecniche più “industriali” che hanno di fatto standardizzato e talvolta abbassato il livello qualitativo delle produzioni artigianali.

La concentrazione della distribuzione è stata poi accompagnata da un analogo processo di raggruppamento nell’industria alimentare.

Premesso che con la globalizzazione oggi sui nostri mercati arriva merce anche da tanti altri paesi, gli effetti sull’ultimo anello della filiera alimentare e cioè sull’agricoltura sono stati devastanti. I dati Istat evidenziano infatti che in Friuli Venezia Giulia dal 1982 al 2010 è diminuito del 65,4 % il numero delle aziende agricole e quasi del 20 % gli ettari di superficie coltivata. La chiusura delle aziende ha quindi comportato anche l’abbandono ed il conseguente degrado del territorio, soprattutto nelle aree più marginali. In particolare sono diminuite le superfici coltivate a prati permanenti, pascoli e foraggere avvicendate, a causa della forte riduzione del numero di allevamenti bovini da latte, ad ortive e a vite.

Come rimediare a tutto questo?

Sicuramente i piccoli produttori devono puntare sulla qualità e su un giusto rapporto qualità/prezzo dei loro prodotti. Dall’altra parte ci deve essere però un consumatore disposto a riconoscerla ed a sostenerla anche con un obiettivo etico. Perché ciò avvenga ci deve essere un riavvicinamento e quindi una comunicazione tra le parti. L’uno si deve riconoscere e riflettere nell’altro. Solo così l’acquisto sarà meno impersonale ed anche il cibo acquisirà il suo giusto valore.
                                                                                                                         Giuliana Masutti
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Dacci oggi il nostro pane quotidiano

9/12/2015

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“Pan e gaban sta ben dut el an” cioè pane e vestiti pesanti vanno bene tutto l’anno, recita un vecchio proverbio friulano, che riassume con queste parole le reali necessità dell’uomo per la sopravvivenza.

Il pane è il cibo che esprime, forse meglio di qualsiasi altro, il sapere locale, la tradizione e la storia di paesi e popoli e nella cucina mediterranea rivestiva un ruolo così importante che in passato si definiva cumpanaticum (oggi companatico) ogni altra preparazione che gli si poteva accompagnare.

Il pane è un prodotto molto semplice che si ottiene dalla fermentazione, lievitazione e successiva cottura in forno di un impasto a base di farina di cereali ed acqua e che può essere arricchito e caratterizzato da altri ingredienti a seconda delle aree di produzione.

In molte zone, soprattutto medio orientali, si ottiene senza fermentazione e lievitazione ed è perciò definito azzimo o azimo.

Da cosa dipende principalmente la qualità del pane?


1 - Dalla qualità della farina.

Le farine possono essere più o meno “forti” (la forza viene indicata con la lettera W) e cioè dare all’impasto una diversa capacità di resistenza all’aria che si forma durante la lievitazione.

Per prodotti a lunga lievitazione è quindi necessario usare farine forti, che trattengono al meglio l’anidride carbonica prodotta nella fermentazione. Le farine vengono definite “biscottiere” quando hanno poca forza e sono pertanto adatte alla preparazione di biscotti secchi o gallette e, in ordine crescente, “panificabili”, “panificabili superiori” e “di forza” per valori di W via via più elevati. Un pane prodotto con buone farine è rigonfio, leggero, rugoso in superficie, con crosta e mollica ben aderenti e con mollica spugnosa, soffice ed elastica.

2 – Dal tipo di lievito usato e dai tempi di lievitazione

Il pane può essere prodotto con lievito naturale, chiamato anche lievito acido e lievito madre, che contiene non solo lieviti ma anche batteri, o con lievito di birra.

Quello ottenuto con lievito naturale è tendenzialmente più conservabile, digeribile e ricco di aromi.

Per ottenere un buon pane la lievitazione deve essere poi lenta e poco spinta.

L’esperienza del panificatore nella gestione di tempi e temperature è l’elemento che nelle lavorazioni artigianali fa in molti casi la differenza.

La legge concede l’uso di taluni additivi, come l’acido ascorbico, la L-cisteina e l’acido fosforico e i suoi fosfati e di miglioratori come il malto o farina maltata e il glutine, che devono comunque essere dichiarati in etichetta.

La loro aggiunta è finalizzata ad aumentare o diminuire la forza della farina o a velocizzare la lievitazione.
E’ però chiaro che sono perfettamente inutili se gli ingredienti sono di buona qualità e se l’operatore conosce l’arte della panificazione e del saper aspettare.

Anche un acquisto consapevole da parte del consumatore può favorire il mantenimento e la diffusione dei sistemi più tradizionali, artigianali e “sani” di produzione di questo alimento.
Se poi ci ritroviamo in casa del buon pane vecchio avanzato, impariamo ad usarlo ed a valorizzarlo adeguatamente in cucina!
Su questo blog, prossimamente, alcuni “consigli pratici per l’uso” con ricette della cucina tradizionale friulana.

                                                                                                                       
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5 consigli per scegliere un buon catering

8/24/2015

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Un momento importante della nostra vita, una ricorrenza, un meeting aziendale, una cena romantica e tante altre occasioni di incontro e di festa possono portarci ad usufruire di un servizio di catering.

Come trovare la soluzioni più idonea alle nostre esigenze?

Innanzi tutto è opportuna una precisazione sui termini perché esistono due tipi di servizio: il catering con la sola fornitura di alimenti e bevande ed il banqueting che comprende anche tutti gli altri aspetti legati all’organizzazione ed alla presentazione dell’evento (es. scelta location, allestimenti, intrattenimenti, ecc.). Poiché le due parole sono però comunemente usate come sinonimi, useremo il termine catering anche per parlare dell’ attività di banqueting.

Premesso che il catering è nato come alternativa al ristorante, per dare una risposta al bisogno del cliente di personalizzare il suo evento, è chiaro che il fornitore ideale sarà quello che riesce ad esaudire i nostri desideri interpretandoli e valorizzandoli, senza mettere troppi paletti.

Ma vediamo ad una ad una quelle che dovrebbero essere le nostre richieste.

1 – Essere ascoltati e consigliati.

A seconda dell’evento (matrimonio, meeting aziendale, ecc.) le nostre necessità possono essere molto diverse e, soprattutto per i momenti più importanti di vita personale, potremmo aver accumulato tanti desideri.
Un’azienda seria è capace di ascoltare, consigliare e dar vita ai nostri sogni.
Ciò rende indispensabile un rapporto di intesa e di fiducia fra le parti. Per questo è fondamentale “sentirsi”, incontrandosi più volte per delineare nei minimi particolari contenuti e modalità di sviluppo dell’evento.
Se vogliamo mettere la nostra firma, non possiamo e non dobbiamo accettare pacchetti preconfezionati e se non ci sentiamo in sintonia con il nostro fornitore è opportuno cercarne subito un altro!

2 – Un servizio completo con una spiegazione chiara ed esauriente di tutte le voci che compongono l’offerta.

Dobbiamo infatti essere sicuri di non incorrere in brutte sorprese, anche per semplici malintesi, che possano creare all’ultimo momento problemi organizzativi e l’aggravio dei costi preventivati.

3 – Soluzioni adeguate al tipo di evento ed al budget di spesa.

E’ chiaro che l’impegno e di conseguenza il costo di catering per un matrimonio può essere molto più consistente di quello, ad esempio, per un battesimo.

A scapito di equivoci va comunque precisato che di norma un’azienda di catering ha costi di servizio maggiori del ristorante, per effetto dei costi di trasporto delle attrezzature e degli arredi, del trasferimento di personale, dell’allestimento della location, ecc..

4 – Disponibilità a fornire agli ospiti, con grande attenzione e cortesia, strumenti e supporto

La cura di questo aspetto è importantissima anche perché potrebbe influire indirettamente sui nostri rapporti futuri, personali o di lavoro, con gli invitati.

5 – Un menù che rispecchi il modo di essere e di vivere del cliente o la filosofia dell’azienda, ma che preveda nel contempo soluzioni alternative e specifiche per gli ospiti con differenti abitudini alimentari dettate dalla religione, dall’etica o da eventuali problemi salutistici.

Poiché nella maggior parte dei casi gli invitati provengono anche da paesi diversi, un menù territoriale, con un’interpretazione originale ed innovativa di prodotti freschi e della tradizione locale, può essere la carta vincente per dare al nostro evento un’impronta unica e far sì che rimanga per sempre tra i ricordi dei nostri ospiti.

Naturalmente la presentazione deve essere curata e fantasiosa, ma soprattutto la qualità di tante pietanze può essere garantita solo con la loro preparazione al momento, direttamente sul posto.

In conclusione si può dire che, con il rispetto delle indicazioni qui riportate, potremmo essere quasi certi di vivere il nostro evento con serenità e con il sorriso sulle labbra e di ritrovare lo stesso sorriso nel viso e negli occhi dei nostri ospiti.


                                                                                                               
link:
http://www.letroichef.com/letroi.html

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Le erbe spontanee della cucina friulana

8/18/2015

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La raccolta di erbe spontanee da usare in cucina era una consuetudine molto diffusa in Friuli Venezia Giulia, così come in tante altre parti d’Italia. Con il disgelo della terra di fine inverno e fino a primavera inoltrata, donne e bambini si dedicavano alla ricerca di germogli e di tenere piantine spuntate grazie al risveglio della natura.
La conoscenza e la capacità di distinguere le specie e le varietà commestibili si tramandavano di generazione in generazione e facevano parte della ricchezza culturale di intere popolazioni. La maggior parte di queste piante cresce però in terreni magri, incolti ed in prati stabili e l’introduzione in molte aree di pianura di un’agricoltura intensiva e delle concimazioni ha spesso ridotto la loro diffusione sul territorio.

Ma vediamo ad una ad una le specie più ricercate ed utilizzate nella cucina tradizionale friulana.

Silene (Silene vulgaris)

Si chiama Silene per la forma dei suoi fiori dal calice gonfio come il ventre del dio greco Sileno, compagno di Bacco. In alcune zone è invece denominata sclopìt per il rumore che produce il suo fiore se lo si schiaccia tra le mani (in friulano scoppio = sclop), in altre grisolò, grisulò, grisu, grisel per il colore verde argentato e quindi tendente al grigio delle sue foglie (in friulano grigio = gris). Si trova in terreni incolti e prati stabili. E’ un’erba ostinata e caparbia che però soccombe con le concimazioni. E’ senz’altro la più apprezzata per il suo buon sapore che la rende adatta a tanti usi dalle frittate, ai risotti, alle zuppe, alle paste ripiene.
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Luppolo (Humulus lupulus)

Il luppolo è noto perché largamente utilizzato nella fabbricazione della birra. Allo stato spontaneo si trova lungo le siepi e tra i rovi e vengono raccolti i suoi giovani getti che, a seconda delle zone, prendono il nome di urtizzòn, urticjon, bruscandui. Nella cucina locale diventano ingrediente caratterizzante di risotti, frittate e zuppe. Ha azione sedativa e le sue infiorescenze, dalla caratteristica forma di cono, venivano inserite nei guanciali per curare l’insonnia.
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 Rosolaccio o Papavero (Papaver rhoeas)

Il papavero è molto diffuso in pianura nei terreni sciolti e diventa infestante nei campi coltivati. In friulano prende il nome di confinon, papaver salvadi, pavari, pavariel e se ne raccoglie la rosetta basale fresca ad inizio primavera soprattutto nei campi non arati. Viene consumato prevalentemente come contorno, bollito e saltato poi in padella, ma entra anche nella preparazione di gustose frittate, zuppe e risotti.

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Taràssaco (Taraxacum officinale)

E’ una pianta ubiquitaria che viene chiamata pissecìan, ridicèla, radicèla, tale, lidrichesse, Le foglioline giovani possono essere usate crude in insalata, ma nella maggior parte dei casi si lessano e si saltano in padella le intere piantine, spesso con un soffritto di guanciale , pancetta o lardo. Con i capolini immaturi si fanno i “capperi friulani”, scottati nell’aceto e vino od acqua e conservati in vaso sott’olio. I bellissimi fiori gialli di questa pianta sono molto frequentati dalle api ed il Friuli Venezia Giulia annovera il miele di tarassaco fra i suoi Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) iscritti all’apposito albo del Ministro dell’Agricoltura.

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Ortica (Urtica dioica)

E’ una pianta presente ovunque, lungo le siepi, nei viottoli, vicino alle case, soprattutto nelle zone ombrose ed è denominata urtie, urtia. Per il suo sapore forte in cucina la sua parte apicale viene di solito lessata e mescolata ad altre erbe, ma può diventare anche la base per saporite minestre, frittate e risotti. Le foglie d’ortica erano usate per colorare le uova di verde nel periodo pasquale (si fanno macerare le ortiche in acqua che viene poi utilizzata per la cottura delle uova). E’ credenza popolare che il bruciore ed il prurito provocato sulla pelle dai suoi peli urticanti abbiano un’azione benefica nella cura dei dolori reumatici.

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Pungitopo (Ruscus aculeatus)

Il pungitopo è una pianta presente soprattutto nella zona alto collinare e nelle zone boschive. Si raccolgono i giovani turioni, dal sapore amarognolo, che sono chiamati ruscolin o sparc di ruscli, sparesi de rust. Essi vengono usati in cucina come gli asparagi e quindi soprattutto come contorno ad uova sode, in frittate e risotti. In alcune zone c’è l’abitudine di introdurli nelle bottiglie di grappa per aromatizzarla e renderla simile ad un digestivo. La pianta, che presenta foglie fitte e pungenti, veniva in passato utilizzata nelle case per impedire l’accesso a topi ed altri animali indesiderati ai magazzini ed alle scorte alimentari.

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Molto usata poi nelle insalate è la Valerianella (Valerianella olitoria) chiamata ardielùt, argelùt, lardielùt oggi coltivata anche su larga scala. Bisogna però precisare che intensità di sapore e consistenza delle foglie delle piante coltivate non sono eguagliabili a quelle della stessa specie cresciute allo stato spontaneo.
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Nelle zone montane sono inoltre raccolte e costituiscono vere prelibatezze anche la Barba di capra o asparago di monte (Aruncus dioicus) localmente denominato barbe di bec o penàc, 
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il Buonenrico (Chenopodium bonus Henricus) o spinacio selvatico, in friulano pêl di mus, sconti, jerbo da’ farino, gàsala, il Levistico o sedano di monte (Levisticum officinale), chiamato selino di mont
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mont, e soprattutto il Radicchio di monte (Cicerbita alpina) in friulano radic di mont o lidric di mont, che è una delle piante più conosciute ed apprezzate dell’arco alpino orientale e specialmente nelle Alpi Carniche.
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Per impedire un prelievo indiscriminato di queste erbe e tutelare gli equilibri ambientali, in Friuli Venezia Giulia è stata emanata una legge regionale (L.R. n.9 del 23 aprile e successive modifiche) che fissa periodi e limiti quantitativi di raccolta, variabili a seconda delle specie.
Premesso che non ci si deve mai improvvisare raccoglitori di erbe senza conoscerle a fondo, onde evitare il rischio di mettere nel piatto specie velenose, talvolta anche mortali, di aspetto molto simile a quelle commestibili, è importante avvicinarsi alla natura con profondo rispetto, apprezzandone i doni, ma lasciando nel contempo anche alle future generazioni la possibilità di conoscerli e gustarli.


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